Minimo breviario televisivo
Telecamere, microfoni, trasmettitori, ripetitori, antenne, ricevitori sempre più grandi e sempre più sottili. Inquadrature, piani, sequenze, campi , insert sonori, commenti musicali, grafici e ricostruzioni grafiche, simulazioni al computer sempre più spettacolari e virtuali. Generi, format, palinsesti, fasce orarie, prime time, seconda serata, indice di gradimento e share sempre più presente e determinante per la raccolta pubblicitaria che a sua volta sempre più determina forme e contenuti del prodotto. Talk show, programma contenitore , reality tv, docu-fiction, film inchiesta, approfondimento, salotto televisivo.Analogico, digitale, digitale satellitare, digitale terrestre, alta definizione, lcd, full hd , tv in internet, tv nel telefonino.Tutte queste espressioni relative ovviamente allo specifico televisivo non rendono – da sole-la complessità dei meccanismi , dei linguaggi, dei significanti e dei fini del giornalismo televisivo così come lo conosciamo noi spettatori.Serve infatti almeno un altro termine: sistema. E poi riflettere sul giornalismo che c’è dentro questo sistema.Il sistema italiano è caratterizzato da un duopolio pubblico- e privato. Da una parte la Rai– il servizio pubblico radiotelevisivo -per il quale, appunto perché è o dovrebbe essere un servizio ,ogni cittadino-utente è tenuto a pagare allo Stato un canone. Dall’altra parte Mediaset . Rai e Mediaset in questo momento sono impegnate nella moltiplicazione delle loro offerte sui canali del digitale terrestre.A completare lo schieramento delle forze in campo , ci sono La 7 di Telecom e il colosso satellitare Sky .La prima ha una vita stenta ;il secondo è in forte espansione con un’offerta pay o free già molto ampia.Insieme però non ci danno ancora un mercato aperto e pluralista . La posizione dominante- in termini di ascolto che sono quelli che contano- è occupata dal duopolio Rai-Mediaset. Con alcuni problemi. Il controllo sulla Rai è affidato per legge al Parlamento – anche attraverso la Commissione Parlamentare di Vigilanza- che ne designa i vertici.Prima della riforma del 1975 ( firmatari Moro Andreotti, Reale e Visentini) questa scelta era prerogativa del Governo e cioè del potere esecutivo.Una televisione del governo dunque. A proposito del 1975: con la riforma nasce la Terza Rete (inizio delle trasmissioni 19 dicembre 1979), quella di Angelo Guglielmi, Biagio Agnes e Sandro Curzi e dell’informazione locale la cui articolazione ha la missione di rispondere alla nuova articolazione regionale dello Stato (le Regioni sono istituite dal 1970). Controllo del Parlamento e regionalizzazione sono le novità sostanziali. Le scelte dei vertici avvengono con criteri politici che per legge, però, sono tenuti a rispettare professionalità, autonomia e pluralismo. Non sempre funziona così tanto che il termine “lottizzazione “(Rete Uno Dc, Rete Due Psi e Rete Tre Pci) entra nel linguaggio comune per indicare, a volte a torto, a volte a ragione, la spartizione tra i partiti dell’azienda pubblica. Problema che permane, che la Prima Repubblica ha lasciato intatto in eredità alla Seconda.Si discute da decenni su come sottrarre il servizio pubblico al controllo dei partiti, ma riforma dopo riforma, questo non è stato scalfito : e questo ci fa aprire una parentesi su democrazia e pluralismo. O, meglio, ci pone alcune domande : che tipo di informazione genera questa natura del servizio pubblico?.Oppure , ancora:è pienamente rispettato il diritto costituzionale dei cittadini ad essere completamente e correttamente informato? E quindi: il diritto (art.21 della Costituzione) dei giornalisti a sottostare nell’esercizio libero delle loro funzioni al diritto di cui si è detto è pienamente garantito?.Anomalia da tener presente: il polo privato si è formato ed è cresciuto da solo in un processo senza regole. Per le capacità imprenditoriali di Silvio Berlusconi e per l’incapacità della politica di governare il processo di forte trasformazione che il far west televisivo degli anni ’70 mostrava con tutta evidenza.Il legislatore non ha saputo far altro- nonostante i periodici richiami della Corte Costituzionale– che regolamentare, di volta in volta, l’esistente (in particolare la legge Mammì del 5 agosto 1990) quando ormai l’esistente si era dato le sue leggi per affermarsi sul mercato.Ormai affermato e solido esistente , proprietà di un solo imprenditore privato. E’ successo poi che negli anni ’90 questo imprenditore è diventato anche capo del partito di maggioranza e capo del governo. Ottenendo ovviamente anche gli strumenti politici per influire sulle scelte dell’unico competitore delle sue aziende televisive. Questa situazione è quella che tutti conosciamo come conflitto di interessi che alcuni hanno sintetizzato nell’acronimo RaiSet. Proprietà Mediaset e controllo, attraverso la maggioranza parlamentare espressione del voto dei cittadini, di Rai configurano un improprio ritorno al Monopolio degli anni’60, monopolio questa volta bipartito tra due sub-monopoli: il polo privato e il polo pubblico. Con il progressivo cambiamento del linguaggio e dei significanti della programmazione (soap opera, telenovelas, serial,reality show, intrattenimento ecc.) di una televisione sempre più generalista e sempre meno educativa è cambiato anche il linguaggio dell’informazione. Non sempre in meglio. Mentre la politica non riesce a trovare nuove forme di governo per la Rai e men che meno a risolvere la questione del conflitto di interessi che viene messo in capo al Premier, si consolida la televisione delle chiacchiere (talk show) che fa nascere la figura professionale dell’ospite, dell’esperto, del testimone diretto, della vittima protagonista. E’ negli anni ’80 che saltano i confini tra fiction e realtà. La realtà è raccontata come fiction, la fiction racconta la realtà. Quella che viene chiamata reality tv dilata l’interesse sui casi umani e le tragedie personali, sul dolore in studio e sul sangue a tutto schermo che vengono socializzati. E’ la tv dell’esasperazione e delle risse in diretta. E parte del giornalismo televisivo, per assecondare la spettacolarizzazione degli eventi- positivi o negativi che siano- diventa sempre più intrusivo nella privacy dei protagonisti . E molti giornalisti diventano essi stessi personaggi e protagonisti: diventano parte del fatte narrato. Il problema che qui ci interessa sottolineare è che questo modello di rappresentazione televisiva tendente alla spettacolarizzazione contamina anche i telegiornali e quindi l’informazione-informazione. Saltano sempre più frequentemente i requisiti che dovrebbero darci un buon telegiornale. E cioè: credibilità, serietà, precisione, tempestività, obiettività, completezza, originalità, chiarezza del linguaggio, gradevolezza dell’ascolto, ricchezza di immagini, testi chiari, coerenza tra immagini e testi, ritmo espositivo, impaginazione coerente per non far scivolare la curva di attenzione, conduzione autorevole e coinvolgente. Si orienta sempre più l’attenzione verso certi fatti per distrarre l’interesse da altri quando questi ultimi sono ritenuti scomodi o sconvenienti. Per i poteri rispetto ai quali , all’opposto,ci hanno insegnato, il giornalismo dovrebbe essere un cane da guardia implacabile. Per conto dell’unico vero editore di riferimento: lettori e telespettatori,i cittadini, insomma. Sono i rischi che corre il giornalismo quando insegue più il gossip o il costume ( anche esso in gran parte prodotto televisivo) che la notizia di interesse generale. Che sottrae notizie per esaltarne altre. Che dimentica il suo dovere di informare correttamente i cittadini perché siano cittadini consapevoli del mondo che gira loro intorno. Anche perché siano cittadini consapevoli quando effettuano le loro scelte di democrazia come l’esercizio del voto. Dunque i giornalisti che fanno nella situazione data? Perdono potere contrattuale all’interno delle aziende editoriale e cedono quote del loro ruolo sociale. Commettono errori (quando per esempio deragliano dalle notizie di interesse generale al pettegolezzo da buco della serratura) ma non sempre sono errori voluti o dovuti alla loro inadeguata preparazione professionale. Si dice: i giornalisti devono tenere la schiena dritta. Certo, è così altrimenti il giornalismo buono muore. Ma questi sono tempi in cui più pericoli sono in agguato dietro l’angolo contro schiene che il nostro sistema, che pure è democratico, rende sempre più esposte e deboli. Prendiamo gli editori: come quelli della carta stampata anche quelli televisivi non sono editori puri, il loro business non è l’informazione. Del servizio pubblico abbiamo visto gli intrecci con la politica e i possibili condizionamenti di questa sulla confezione del prodotto informativo. E conosciamo il metodo dello spoil system, cioè dei cambiamenti nei posti chiave che avvengono ad ogni cambio di maggioranza di governo. Del polo privato sappiamo come e la proprietà coltivi interessi in altri settori: dalla politica all’economia. Questi interessi altri possono condizionare la produzione informativa.Prendiamo i rapporti di lavoro: come nelle redazioni della carta stampata anche in quelle dei telegiornali è sempre più alta e incidente la presenza di giornalisti precari, con contratti a tempo determinato, con poche garanzie di avere un’occupazione anche domani. Del resto l’offerta è di gran lunga superiore alle capacità occupazionali del mercato dell’editoria. E questo impedisce al contraente più debole di chiedere condizioni, figuriamoci la possibilità di scegliere tra opzioni. Le opzioni non ci sono. Difficile , sempre più difficile coniugare questa insicurezza, con il dovere di tenere la schiena dritta per rispettare quei diritti dei cittadini cui abbiamo detto. E anche i meglio garantiti possono essere condizionati quando un’opinione difforme diventa giudizio negativo e discriminante da parte del datore di lavoro, sia questo un soggetto pubblico o un soggetto privato. Possono saltare come sono saltati nel tempo Enrico Mentana, Enzo Biagi, Michele Santoro e altri . A volte basta poco. Appena cercare di fare il lavoro come deve essere fatto, se questo minimo disturba o intralcia questo o quello spezzone di potere politico, economico, f inanziario che sia. Il giornalista è chiamato sempre più ad una vera e propria resistenza contro un contesto sistemico che lo vuole indirizzato allo snaturamento del suo ruolo e della sua professione. E non tutti hanno notorietà e mezzi per farsi sentire ,condividere, far conoscere le proprie sacrosante ragioni. Sono i tanti che sono costretti anche a tacere che fotografano lo stato del giornalismo nel nostro paese. Il nostro paese che ci rimanda, come fosse uno specchio, un’altra immagine di questo stato: la legge sulle intercettazioni telefoniche che opacizza un intero settore, quello della cronaca giudiziaria. I cittadini sapranno chissà quando,ma a tempo debito e forse scaduto, fatti che li guardano. Che sia delitto della criminalità organizzata o affari della criminalità dei coletti bianchi.