Ponte Valleceppi: tracce antiche sulla scena del crimine
Sulla scena del crimine di Ponte Valecceppi ( un trentenne ha ferito gravemente a colpi di pistola la ex convivente, il loro bambino di due anni e un’amica della donna e poi si è sparato alla testa ed è in fin di vita), non ci sono a quanto pare soltanto il sangue, i bossoli e le altre tracce buone per il fascicolo delle indagini. Ad un primo, sommario esame sembrano evidenti anche tracce antiche delle le regioni che fanno del possesso il movente di parte dei delitti violenti nei quali a soccombere sono le donne. Questo se gli elementi resi noti all’istante avranno conferma e non emergeranno circostanze di segno nettamente contrario. Se dovessero esserci chiavi interpretative che smentiscono quelle di cui si dispone si avrà modo di analizzarle e spiegarne l’eventuale contraddizione con quello che sembra potersi asserire al momento. Il possesso, dunque. Per possesso s’intende l’elemento fondante che, per una percezione distorta della coppia, gli occhi dei maschi vedono nel rapporto con la loro femmina. Agiscono per il possesso materiale e magari sono convinti che il legame sia fortemente sentimentale e quindi affettivo. Ed è appunto quando questo possesso che in genere è controllo, autorità, dipendenza, è minacciato o perso che l’uomo vuole riaffermarlo con tutti i mezzi provocando ogni eventuale conseguenza. Anche la peggiore. Per la donna non è cosi, l’azione maschile non ha un corrispettivo femminile. I tre decenni presi in esame da “Il sangue delle donne-cronache di femminicidi in Umbria”- Morlacchi Editore-” rappresentano un tempo adeguato anche per un abbozzo di analisi sociologica. Che adesso per sintesi lasciamo sullo sfondo. La cronaca ci dice brutalmente che di fronte alla rottura di un rapporto la donna- giovane o in età avanzata- si manifesta meno fragile, ha o riesce a trovare più risorse per venirne fuori, ha una maturità che le consente di affrontare senza conseguenze incontrollabili le difficoltà della vita che all’improvviso prende un altro corso. L’uomo no. L’uomo sembra precipitare molto più facilmente verso l’irreparabile . E questo precipitare è tanto più frequente quanto cresce la capacità della donna di non essere oggetto inerte del possesso e di trovare in se stessa risorse per stare al mondo con una più franca e consapevole autonomia. Ecco allora che se il possesso finisce- e all’uomo questo finire appare inconcepibile e capitale- deve avere una fine anche l’oggetto posseduto. Ecco allora che si spara, si accoltella e che, una volta data la morte, si infierisce sul cadavere e sempre più spesso si ricorre al fuoco quasi a voler cancellare un’esistenza e ogni sua traccia. Ed ecco che parallelamente a questi fenomeni emergono anche altri comportamenti definitivi. Chi colpisce finisce con il credere che il processo di perdita del controllo sulla moglie, sulla compagna, sulla persona che riteneva sua in tutto e per tutto, si blocchi colpendo anche se stesso. Mi uccido così il prezzo che paghi è più alto. Non è la paura della giustizia . E’ un voler imporre un dazio che cambia forma. Ed è seguendo questa folle spirale che si possono ammazzare con lucidità figli o congiunti della vittima. La cronaca ci insegna infine che epiloghi di questo tipo raramente trovano spiegazione in quello che in genere viene definito come un raptus di violenza o di follia. In genere in queste tragedie , l’uomo che spara per affermare la piena disponibilità del bersaglio, una qualche espressione della premeditazione compare sempre. Espressioni che troppo spesso vengono colte troppo tardi.