Omicidio-suicidio a Città di Castello: una tragedia dentro un film visto e rivisto. E domande fatte e rifatte.
Le sequenze della tragedia sembrano di quelle viste e riviste. Una sceneggiatura della normalità che diventa copione di dolore e di interrogativi. Il dolore di sempre, le domande fatte e rifatte intorno a qualcosa che ormai è prossimo, familiare. Abitudine. Il movente statisticamente evidente è nel controllo che è possesso della donna che magari si ama sopra ogni cosa . L’uomo uccide quando lo perde o semplicemente avverte il rischio di perderlo questo controllo. Non ha ( o non riesce a mobilitarle) risorse per gestire questo passaggio e affrontare altrimenti il problema che gli è comparso davanti anche se nella vita è stato capace di affrontarne tanti e altrettanto seri. Allora uccide perché eseguire l’omicidio è come cancellare il problema. Non uccide perché gli si pianta in testa qualcosa di imponderabile e improvviso. Non uccide perché cade sotto l’imperativo di un raptus. In genere uccide dove aver progettato quel gesto definitivo. Dopo averlo premeditato.IL copione maledetto avrebbe avuto la sua replica anche questa volta. E pure gli ultimi fotogrammi della stessa sequenza di Città di Castello non ci raccontano eventi dei quali non sappiamo. In generale l’uomo che uccide, sempre più spesso poi uccide se stesso. Difficile il pentimento. Difficile da ricercare se non è l’omicida-suicida a renderlo esplicito. Più probabile la paura delle conseguenze giudiziarie del massacro appena compiuto. Queste sequenze si trovano in molti dei casi indagati da <<Il sangue delle donne- trenta anni di femminicidi in Umbria>> edito da Morlacchi. Read more…