Con “Il divo e il giornalista” un anticipo delle nuove indagini sull’omicidio Pecorelli
La caccia alle armi che hanno sparato in via Orazio sotto la sede del settimanale “OP” ammazzando Mino Pecorelli comincia subito e compie un lungo viaggio nel corso degli anni. Un viaggio tortuoso, con personaggi e contesti singolarmente ricorrenti che la ristampa de “Il divo e il giornalista- Giulio Andreotti e l’omicidio di Carmine Pecorelli: frammenti di un processo dimenticato” scritto da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno per Morlacchi Editore ripercorre tappa dopo tappa. Dal deposito romano della Banda della Magliana alle ipotesi recentissime che spostano le ricerche a Monza, riaprendo di fatto il fascicolo sull’agguato mortale al giornalista, da 40 anni a opera di ignoti. Avvenne dunque 40 anni fa , il 20 marzo 1979. Due dei quattro proiettili esplosi da una 7.65 sono di marca Gevelot, non di uso comune tra gli uomini della criminalità organizzata. Quei proiettili venivano da una partita che sia gli uomini della Magliana ( e i terroristi dei Nar) tenevano al sicuro in uno scantinato del ministero della Sanità. Le prove balistiche su quella santabarbara. Le prove balistiche sulla quella santabarbara si chiusero con il parere di non compatibilità: l’arma del delitto non era in quel borsone al quale, secondo gli inquirenti, avevano accesso Massimo Carminati e pochi altri. Nel 1992 Vincenzo Vinciguerra personaggio di spicco di Avanguardia Nazionale, ergastolano per la strage di Peteano, racconta al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, che Adriano Thilger, un altro estremista di destra, quando erano in cella insieme, un altro dei loro gli aveva confidato che l’arma che aveva ucciso Mino Pecorelli era in suo possesso e che se non aiutavano a risolvere alla svelta i suoi guai con la giustizia, l’ arma l’avrebbe consegnata ai magistrati aprendo una breccia su silenzi e protezioni. Il soggetto tirato in ballo si chiama Domenico Magnetta che poco dopo si dissocia e fa consegnare a un prete un’altra santabarbara con un’altra 7.65, marca e calibro di quella del delitto del giornalista. Ma neanche quella 7.65 è l’arma del delitto dicono gli esperti. Al processo di Perugia, nucleo centrale del libro “Il divo e il Giornalista” arrivano le informazioni di Vincenzo Vinciguerra che si rifiuta però di rispondere in aula alle domande dei piemme e le smentite di Adriano Tilgher e di Domenica Magnetta che intanto è diventato un intrattenitore radiofonico. Poi silenzio. Silenzio anche quando nel 1995, Domenico Magnetta viene fermato a Monza per le armi stipate nel sottofondo di una Citroen Dyane . Di questo sequestro pare non abbiano saputo la Procura di Milano titolare delle inchieste sul terrorismo e la Procura di Perugia che era alla ricerca dell’arma del delitto Pecorelli per competenza territoriale e aveva messo sotto inchiesta Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Pippo Calò, Angelino La Barbera e Massimo Carminati. Alla fine tutti assolti come è noto secondo le tappe raccontate in “Il divo e il Giornalista”. Strano questo mancato scambio di informazioni. Forse è stato soltanto il semplice fatto che quelle armi ( tra queste ancora una 7,65) non sono state messe in relazione con i colpi mortali di via Orazio e quindi nessun confronto balistico è stato fatto, Il collegamento lo ha fatto una giornalista ed è stata ripresa da Rosita Pecorelli, la sorella , che con l’avvocato Valter Biscotti, ha chiesto alla Procura di Roma di riaprire il fascilo. E il fascicolo è stato riaperto con una delega alla Digos di Roma. Magnetta chi è ? Tante cose, ma soprattutto è l’uomo che era con Massimo Carminati quando, il 20 marzo 1981 quando a un posto di blocco sul confine svizzero ci fu un conflitto a fuoco con la polizia e l’ex Nar in ascesa nella Magliana perse un occhio. Una brutta lesione per la quale chi non lo amava l’ha chiamato “Er Cecato”.