L’Efebo, Messina Denaro e il Patto di Foligno
Gli uomini di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo l’attuale imprendibile capo della mafia trapanese, si accordarono con gli emissari di un facoltoso ricettatore dopo aver trattato sul prezzo per un paio di mesi. Lo scambio, 30 milioni di lire per l’Efebo di Selinunte , un bronzo di 85 centimetri , quinto secolo avanti Cristo, trafugato il 30 ottobre 1962 dal museo di Castelvetrano, concordato a Foligno, nella bottega dell’antiquario Giuseppe Fongoli, sei anni dopo il furto. Tutto andò a buon fine, nonostante cinque pericolosi colpi di pistola e duri momenti di lotta libera. Ad aspettare gli inviati di Cosa Nostra del resto non c’erano degli innocui acquirenti d’arte. C’era un nucleo di poliziotti di alto rango. Li guidava un agente segreto , Rodolfo Siviero, investigatore e intellettuale, esperto di antichità .Il Governo l’aveva fatto ministro plenipotenziario dandogli carta bianca per recuperare le opere sottratte al patrimonio italiano durante la guerra o fatte sparire da collezioni pubbliche e private negli anni successivi al conflitto. Insomma il numero uno del settore, una sorta di mito che è passato alla storia per i capolavori che è riuscito a salvare e a riportare a casa. Spesso ipotesi di ricerca e idee operative le confrontava con il suo amico antiquario della città della Quintana. Le fasi che hanno portato al recupero dell’Efebo sembrano fotogrammi di un film alla James Bond. Dunque Francesco Messina Denaro che è un boss potente e spietato è anche un appassionato di archeologia, ma il colpo dell’Efebo l’avrebbe ordinato per fare business, per rivendere la scultura. L’immissione dell’offerta sul mercato clandestino fatta circolare anche all’estero, Svizzera e Stati Uniti compresi, però rimane lettera morta. Non si avanzano compratori. I mafiosi allora ripiegano su Castelvetrano e chiedono al comune un riscatto di 30 milioni. Che il comune non paga. Sono gli studiosi Massimo Pallottino e Ranuccio Bianchi a decidere di mettere la pratica nelle di Rodolfo Siviero. Il ministro accoglie l’invito e comincia la caccia. Associa nell’avventura il questore di Agrigento Ugo Macera, il vicequestore di Palermo Aldo Arcuri e altre tre poliziotti. L’ antiquario Giuseppe Fongoli li aspetta a Foligno. L’Umbria diventa il loro quartier generale . Qualche settimana e c’è l’aggancio con chi chiede il riscatto . Sono in cinque e guida la trattiva Attilio Sciabica, soggetto in ascesa nel clan fedele ai corleonesi di Totò Riina.
Lo 007 dell’arte ha nascosto i poliziotti dietro alcuni mobili, le Beretta in mano, pronti a intervenire al gesto concordato con il capo. Con una scusa Rodolfo Siviero convince tre della delegazione di Cosa Nostra ad allontanarsi. Apre la valigia dove c’è l’Efebo. Controlla, allunga le banconote ai suoi interlocutori, e si toglie il cappello. E’ il gesto che da il via alla chiusura dei giochi. Un furioso corpo a corpo per immobilizzare i due mafiosi presenti, i tre che erano usciti sono tornati sui loro passi e sparano nel mucchio. I colpi vanno a vuoto e anche loro in un attimo hanno le manette ai polsi. Foligno ha consentito così a Castelvetrano di riavere il suo prezioso Efebo e allo Stato di mettere cinque mafiosi in carcere.- ( da “Il Messaggero”)-