La culla delle baby gang in una ricerca dell’Università di Perugia
Non è facile capire i moventi che spingono i ragazzini in libera uscita a diventare baby gang, che fanno dei minori dei criminali precoci, che indistintamente spostano la violenza dai telefonini ai vicoli delle loro città o viceversa. Sono risse, agguati, ferimenti , corse all’ospedale. Fenomeni preoccupanti, grafici in crescita, azioni di contrasto che spesso mancano l’obiettivo. I futili motivi che nei verbali delle forze di polizia sembrano conchiudere ogni spiegazione, il più delle volte restano in quella indeterminatezza incapace di spiegare il tutto. “Situazione inquietante”, ha tagliato corto il procuratore generale Sergio Sottani un anno fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario riferendosi anche al consumo di droghe e bevande alcoliche. Sabina Curti, Silvia Fornari ed Elisa Moroni dell’Università di Perugia sono andate sul campo a vedere da vicino, con gli strumenti della sociologia, come fare prevenzione su 14.386 minori, 1600 della scuola della scuola dell’infanzia, 4021 della primaria e 3157 della secondaria di primo grado. E tra questi: 280 sono con disabilità accertata, 574 , con bisogni educativi speciali, 375 vivono una condizione di povertà assoluta , 123 assistiti dai servizi sociali, 380 sono immigrati di prima generazione , 192 di seconda generazione. Il contesto è quello di Terni, Narni, Amelia e Orvieto. Tra le varie cose le tre sociali hanno trovato “una stretta correlazione tra povertà educativa, disuguaglianze sociali e devianza minorile”. Una sorta di mala educazione. Con poche opportunità di apprendimento, scarse conoscenze e competenze emotive i più giovani vanno alla deriva: si organizzano in bande con “valori e stili di vita devianti” in contrasto con le convenzioni del mondo adulto, perché a quell’età il gruppo è tutto. Ci sono anche tante giovanissime: a volte sono mediatrici nelle risse tra gang , altre volte si organizzano in gruppi femminili che, come quelli maschili , sono protagonisti di azioni di bullismo, consumano droghe, imitano atteggiamenti di prevaricazione maschile. E come i piccoli branchi dell’altro sesso sono, appunto, aggressivi e violenti. Luoghi delle azioni: la scuola, i centri commerciali, i ritrovi, la strada e ovviamente tutti gli anfratti deleteri della rete. Al termine del loro viaggio Curti, Fornari e Moroni affermano che se non ci sono soluzioni facili per contrastare la devianza minorile, non serve a molto punire e reprimere. Prevenzione , allora. Ma come? Lo spiegano in due volumi “Sociologia della povertà educativa” e “New Generation Community” ( Meltemi Editore) . Serve che l “educazione” sia significante e prassi quotidiana. E l’educazione non la possono coniugare da sole la scuola e la famiglia. Le tre sociologhe propongono la “ costruzione di vere e proprie comunità educanti come soggetto di prevenzione e contrasto alla devianza minorile e alla povertà educativa”. Nella comunità educante inseriscono: associazionismo, spazi urbani, spazi digitali. Dunque, scolastico ed extrascolastico devono unire gli sforzi per evitare il precipizio della povertà educativa dal quale risalgono disagio, devianza, baby gang e ragazzini con un piede , o entrambi, nel crimine. Pericoloso socialmente lo scarica barile o il rimbalzarsi le responsabilità tra i soggetti che devono accompagnare il minore all’età adulta. La ricerca-azione di prevenzione alle disuguaglianze e devianze minorili è stata coordinata dal Cesvol di Terni e selezionata dalla Fondazione Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il Contrasto alla Povertà educativa. Partnership con il Dipartimento di Filosofia, Scienze Umani e Sociali, e di 43 soggetti compreso un carcere. ( da Il Messaggero)