Intorno alla violenza di genere: tra otto marzo e venticinque novembre.
Muoiono di piombo, di coltello, di spranghe , di martelli, di cacciavite, di calci, di pugni. Strozzate con le mani , con cinte, corde, sciarpe, cavi elettrici. Soffocate da cuscini, asciugamani, buste di plastica, nastri da pacchi. Bruciate o smembrate o fatte scomparire , quando serve. A volte la messa in scena di incidenti domestici. Vengono uccise per ragioni che hanno a che fare con la tradizione e il costume, con la cultura corrente in quel momento. Con qualche discontinuità e poche variabili. Fino agli anni Settanta del secolo scorso non si cercano moventi in situazioni che vanno oltre la gelosia o il tradimento o il discredito sociale. Il sangue della donna lava via un’onta subita perché onta ci dove essere per forza. Altrimenti, quale altra spiegazione? All’assassino il sangue, il suo, è andato alla testa per un torto subìto. Genesi considerata endemica che chiude alla svelta il fascicolo di un’indagine standard. Al processo si discuterà di attenuanti. Questo la cronaca . Meno di un paio di decenni e nel linguaggio dei modelli interpretativi qualcosa lentamente cambia. Termini e modi di dire come raptus, impeto, reazione inconsulta, omicidio a caldo cominciano ad assumere pesi, considerazioni, valutazioni , anche processuali, diverse. L’uso di nuove parole è lo specchio di un nuovo atteggiamento. Perché nell’uomo che uccide adesso si legge un problema più complicato, più intricato, meno evidente. Deve ristabilire una regola, : quella donna, che è mia, ora che l’ho ammazzata non potrà essere di altri. Non gli è andato all’improvviso il sangue alla testa quando spara o accoltella : no, ricostruzioni più attente ora ci dicono che spesso, la percentuale è significativamente molto alta, l’azione è stata studiata , organizzata, insomma premeditata. Come l’azione di un killer: altro che pazzia improvvisa, ricostruzione difensiva buona per lucrare sconti di pena e fatta propria da tante sentenze. C’è , insomma, una spinta a disincagliarsi da uno schema sbagliato e ancorato a una immutabilità secolare. Quantomeno per affinare la diagnosi di una malattia che sembra incattivirsi di generazione in generazione. Proprietà, dominio, esclusività, controllo, persecuzione, sono il nucleo di un crimine commesso su una donna perché donna. Evidenziato questo nucleo ecco comparire nel lessico comune un termine mai usato prima , quello di “femminicidio”. “ Possesso” dunque è il palindromo tanto di violenza di genere che di femminicidio. Un fenomeno con più sfumature, tragiche e complesse, contro il quale si infrangono i buoni propositi della prevenzione. Una pandemia dentro la nostra società causata da più virus che fino all’altro ieri erano di rarissima individuazione: non c’erano gli strumenti e le risorse intellettuali per farlo. Gli stessi virus che con il trascorrere del tempo sono diventati più evidenti sotto i diversi microscopi sociali , da qualche tempo a questa parte si manifestano con varianti ancora più terrificanti. Una prima variante: quasi a voler prolungare la punizione inflitta con la morte l’uomo toglie la vita anche ai figli della donna uccisa. Figli quasi sempre nati dalla relazione con colui che uccide. Una seconda variante: con la stessa frequenza in crescendo della prima, in questa manifestazione del contagio, l’ultimo colpo l’assassino lo scarica su sé stesso. Estremo pentimento, lucida decisione di cancellare tutto e tutti o paura delle conseguenze giudiziarie del gesto omicidiario? Chi può rispondere? La negazione della libertà di pensarla in un’altra maniera , di scegliersi un partner diverso , di rifarsi una vita, di cambiare lo svolgimento della propria esistenza equivale all’affermazione di quell’egemonia totalizzante attuata quotidianamente dentro e fuori le mura domestiche che si manifesta con l’esplosione ,nelle più diverse forme, di quei comportamenti che, per essere sintetici, chiamiamo violenza di genere. Manifestazioni che vanno fermate prima che fermentino – come genesi comune che si sta consolidando nelle sue drammatiche repliche quasi quotidiane- in forme sempre più gravi, feroci, disumane , irreparabili, definitive. Le leggi in genere rispecchiano la cultura del paese che le produce. Nel nostro ordinamento, fino all’agosto 1981 in Italia è stato in vigore l’articolo 587 del codice penale che stabiliva:” Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’ onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella “. Il delitto d’onore come attenuante e mezzo per lucrare condanne a pene miti è sopravvissuto all’abolizione del reato di adulterio, all’approvazione della legge sul divorzio, al nuovo diritto di famiglia. Ecco, la cultura, si diceva. Qualche scoria di questo passato recente, di quell’articolo, il 587 del codice Rocco, probabilmente ce la portiamo ancora addosso.